giovedì 1 dicembre 2011

La cena del Signore


- E nella valigetta?
- Oh, beh, documenti, solo documenti.
Già, solo i miei documenti. Documenti di lavoro.

- Che lavoro fa?
- Sono disoccupato.


Capita che anche a Bilbao spunti il sole, un qualche giorno della settimana grande, e che la città sbocci come una margherita di primavera lasciando le sfumature del grigio nell'armadio e vestendosi di toni vividi e sgargianti.
Bilbao a colori è anche una bella città, e passeggiare senza meta per una bella città è fra le attività che l'aficionado preferisce, quando non è ai tori: la luce che illumina la gran via accende le facciate ora policrome dei palazzi e rende più lieve l'attesa, onora la festa e prepara alla funzione pomeridiana, esorta a uscire presto e camminare.

L'albergo è dalle parti di Vistalegre, scendiamo avanzando piano verso il Nervion: non c'è fretta, l'aria è calda e piacevole, la città si sta risvegliando dopo la notte di festa e ragazze e uomini con il foulard blu e bianco si incrociano per le vie a impiegate e operai trafelati.
Café e pintxo: sul giornale la cronaca della miurada di ieri è impietosa, la cameriera del bar non è bella ma ha un sorriso gentile e schietto, la televisione appesa nell'angolo del locale trasmette le immagini di un video reggaeton. Credo di non sopportarlo, il reggaeton, tantomeno se me lo ritrovo anche nei Paesi Baschi, eppure ogni volta non riesco a tener ferma la gamba e mi trovo a tambureggiare ritmicamente con le dita sul tavolo. Fottuto reggaeton.
Inoltrarsi per le vie della città è come entrare nella casa di qualcuno che dà un party: prima si è accolti sulla porta, poi l'ingresso dove lasciare le giacche e dove già arriva l'eco della musica e degli schiamazzi, poi la cucina dove è imbandita la tavola e dove sono stappate le bottiglie, a finalmente la sala dove gente balla e beve ed è allegra.
Giganti e testoni, tamburi e pifferi, frittelle e bicchieri che brindano: più ci avviciniamo ai quartieri vecchi più la festa si impossessa della città, più i volti delle persone sono rilassati e felici, più ad ogni angolo suona una musica, ad ogni crocevia c'è un bar che distribuisce bevande, più la vita è semplice e bella.

Seguiamo il ritmo e il vocìo, arriviamo al Café Iruña. Il suo salone liberty e gli specchi e il lungo bancone zeppo di tapas e bottiglie sono un inno alla joie de vivre, la tentazione alla sosta eterna, la sublimazione di tutto quello che è, veramente, necessario: il vino, la compagnia, un bel posto. Basta questo, per vivere bene.
E' mattino inoltrato, la birra a quest'ora scende fresca e inebriante; di fianco a noi tre signore già stanno ordinando piatti di prosciutto e merluzzo, e le finestre del caffé affacciano su un giardinetto che trasmette un'idea di pace e serenità assolute. Finiamo la birra, andiamo a vedere.
La piazzetta in effetti è deliziosa, uomini anziani stanno sulle panchine a far girare stancamente il bastone fra le dita, qualcuno legge il giornale, passa una ragazza che fa jogging con le cuffiette nelle orecchie. Chissà perché questo quadro perfetto ci fa balenare un pensiero: ci sono i tori oggi. Come una folgorazione. E' incredibile quanto in una giornata di corrida il pensiero vada, in ogni momento e in ogni situazione, ai tori, a immaginare quell'istante perfetto in cui le due corna sbucano dal nero del corridoio, a vibrare per le note del paseillo che già ronzano in testa, a sognare una serie di naturales rotonda e magica.
In una giornata di corrida, in ogni momento si pensa ai tori.

Quasi all'angolo con quei giardinetti, nascosta in una viuzza anonima, sta una chiesetta: l'interno è come la facciata, sobrio e discreto. Il silenzio è rotto solo dai suoni di un organo che riproduce canoni barocchi, sul fianco destro un paio di persone aspettano il proprio turno per inginocchiarsi al confessionale, la luce è fioca. San Vicente Martir de Bando.
Sulla fiancata sinistra un pannello notevole, un trittico a suo modo cupo e onirico, una composizione che tiene insieme classicità e sfrontata innovazione, concepita e narrata con un linguaggio pittorico che non ti aspetteresti in una chiesetta così.
Rimaniamo lì di fronte qualche minuto, finché tutto improvvisamente non assume una dimensione trascendentale.

E' che a un certo punto entra un raggio di sole e va illuminare una cappelletta, poco più avanti, scavata lì nella navata sinistra. C'è un arazzo, guardando meglio si scopre che è un murales. Impossibile non rimanerne affascinati. E' la rappresentazione dell'ultima cena, si sviluppa in verticale e le dimensioni sono imponenti, ci avviciniamo per vedere meglio, sedotti dalla scelta del colore: il gioco è tutto sui toni del granata per un risultato insieme elegante e austero, e quella luce che ha al suo centro fa pensare ai quadri di Rembrandt. E' un'opera che suggerisce rispetto.
Finché vediamo.
A impersonare Gesù Cristo, proprio in alto al dipinto, c'è il Drugo.
Lebowski.
Nell'Ultima Cena di Iñaki García Ergüin 1, il Drugo è Cristo, Gesù è Lebowski.
La folgorazione è inevitabile, ci raccogliamo e ammiriamo.
Il Drugo è il più grande pensatore dei nostri tempi e l'unico vero Messia che dobbiamo ascoltare e seguire.
Lì, finalmente, è al posto che gli compete.
E in quel calice c'è del white russian, su questo non ci sono dubbi.

Non so quanto tempo passiamo, lì in meditazione, e poi usciamo, pacificati e pieni.
Qualche ora dopo Urdiales e Tejedor, di Fuente Ymbro, daranno spettacolo.

Obladì, obladà.



1. benché qui in famiglia le opinioni siano contrastanti e abbiano già indotto alla lite senza quartiere, a chi scrive le opere di Erguin piacciono. Le si trovano qua, e già pure un blog amico ne aveva parlato grazie al fatto che il pittore non disdegna tematiche taurine.

(foto, mossa, Ronda - "Cena del Señor" in San Martir de Abando)

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