mercoledì 10 agosto 2011

Il torero e la piuma d'angelo

Già pubblicato venerdì 5 agosto nella terza pagina de Il Messaggero, poi ripreso da Nicola Lagoia per Minima & Moralia, ecco ora anche sulle Cinque della Sera questa lungo scritto di Matteo Nucci: un pò per il tema del racconto, un pò per il periodo in cui ve lo proponiamo, funge quasi da racconto d'agosto, di quelli che si leggono con calma e con piacere sotto l'ombrellone.


Dominguin e Bosé - il torero e la piuma d'angelo

di Matteo Nucci

La prima volta in cui s’incontrarono fu a Madrid. Lui si avvicinò in punta di piedi – sembrava camminare sul nulla come sanno fare solo i ballerini e i toreri. Lei lasciò che le prendesse la mano e gli sorrise nel suo volto diafano e di una bellezza oltremondana. Chi era lì pensò che fossero già due parti solo materialmente separate di una coppia nata per vivere in un’altra dimensione. In realtà, dopo sorrisi e parole di circostanza, Lucia Bosé si allontanò pensierosa. Le pareva di aver appena conosciuto un uomo di antipatia assoluta: “Uno che recita più di tutti gli attori che ho incontrato” si confidò. “Recita la parte del torero rubacuori, padreterno e fatale”. Pochi giorni dopo già uscivano insieme. Un mese e lui le disse: “Ci sposiamo”. Due mesi e Luchino Visconti salì sull’altare per far loro da testimone.

Aveva ventiquattr’anni, Lucia Borloni, in arte Bosè, quattro meno dell’uomo che sposava. Commessa nella pasticceria Galli di Milano, era stata eletta miss Italia sedicenne e aveva recitato per registi come Antonioni, Soldati, Emmer – la sua carriera nel cinema era lanciatissima. Lui era della più influente famiglia torera di Madrid, sfidava animali fin da quando aveva undici anni, si era dichiarato il numero uno ormai da parecchie stagioni, era stato a fianco di Manolete il giorno della sua morte nell’arena, aveva toreato decine di volte di fronte a Hemingway. Per lei il torero fu il primo. Per lui l’attrice fu l’ennesima, ma stavolta apparentemente fatale. L’amore infatti travolse ogni cosa.

Quando si rividero dopo quella prima volta a Madrid, Luis Dominguin le parve “di una bellezza che lascia senza fiato”. In effetti chi tentava di dominarsi era il torero. Capace per mestiere di dissimulare il sentimento – che sia l’eccessiva confidenza o la temibile paura – fece ricorso al massimo autocontrollo per mantenersi elegante e posato. Le propose di rivedersi con tranquillità. Pochi giorni dopo, la ragazza che aveva resistito a qualsiasi tentazione perse la verginità e rimase a letto con il matador per tre giorni. Stavolta, lui non si alzò subito dopo, come aveva fatto con Ava Gardner, dichiarandole sbrigativo: “Vado a dirlo agli amici”. Né fece quel che aveva fatto con Lana Turner, Rita Hayworth, Lauren Bacall, tanto per dirne qualcuna tra le decine. Lucia diventava sua moglie.

Mentre le innumerevoli amanti perdevano il sogno di conquistare il torero e una di loro, l’attrice cecoslovacca Miroslava Stern, venne trovata morta, suicida, con la foto del matador in mano, casa Dominguin per Lucia divenne un rifugio da tutto e da tutti, anche più di un rifugio. Aveva subito abbandonato la carriera e aveva accettato di non uscire più di casa se non con il marito. Era seguita costantemente da quattordici persone in servizio, pronte a soddisfarne ogni desiderio, pronte anche a evitare che fosse presa dalla voglia di andarsene al parrucchiere da sola.

Vivere con un torero è complicato e Lucia Bosè se ne accorse in fretta. Lo racconta meglio di ogni cosa un altro dei detti celebri di Dominguin: “Ho sul corpo più di cento ferite. Portano il nome delle donne che ho avuto. I tori le conoscevano e ne erano gelosi”. Per una ragazza innamorata, nelle cicatrici che segnano la silhouette perfetta dell’amante, c’è il pericolo della morte che l’uomo ha deciso di sfidare continuamente: quel che può creare in un vero torero “occhi da leggenda: il carisma di chi ogni giorno si gioca la vita”. Ma ciò che della frase di Dominguin non si può fraintendere è la gelosia che gira attorno al corpo del seduttore, una gelosia suscitata, ma anche provata con lo spirito del persecutore. Il mondo di Dominguin, infatti, è un mondo di avvicinamenti e respingimenti diabolici, sottomissioni e rivalse, amore e morte. “Dà più cornate la fame che il peggior toro” si dice in ambiente taurino. Alla Cerveceria Alemana di Madrid in plaza Santa Ana, dove la famiglia Dominguin ha il suo “ufficio”, si preferisce la versione popolare del detto: “Danno più cornate le donne”. Ancora una volta, quell’ostentazione machista tipica della Spagna profonda nasconde ben altre verità: dalle corna dei tori, a quelle di letto, in cui Dominguin certamente eccelle.

Lontana da tutti, la ragazza italiana, caparbia e determinata, soffre senza chiedere compatimenti per le “assenze” di quello che chiamerà sempre e soltanto “il torero”. Finge distacco e fa a pieno titolo la madre dei tre figli che via via le nascono mentre altri, numerosi, ne perde. Con Miguel, Lucia e Paola c’è sempre meno tempo da dedicare alle preoccupazioni. Del resto, la vita mondana della coppia non si è interrotta. Semmai è stata coronata da un’amicizia particolare: quella di un piccolo artista da sempre innamorato della bellezza femminile che a Lucia è stato presentato da Jean Cocteau. Pablo Picasso non dimenticherà mai il primo incontro con la Bosè. Più tardi ne dipinge il volto in una frase: “un perfetto mosaico di ossa”, poi diventa amico del marito, di cui esalta l’arte. Infine diventa padrino del piccolo Miguel che tiene spesso con sé nel suo atelier. L’artista però, per i coniugi Dominguin, non è che l’apice di una vita sulla ribalta. Viaggi ovunque, un aereo privato, la protezione del Generalisimo Franco, weekend a Marbella, Biarritz, Bilbao, amicizie fra i migliori flamenchisti del Paese, ogni tanto un pomeriggio con Salvador Dalì: “esuberante, irresistibile”. I giorni sono scanditi dalle attese e le esplosioni di lusso, le amarezze, i tradimenti, la solitudine. La tenuta andalusa dove Luis Miguel si è messo ad allevare tori è diventato il buen retiro principale, ma ogni reggia di Spagna comincia a somigliare per la ragazza sempre più a una prigione.

Le incomprensioni infine crescono inarrestabili. Ruotano tutte attorno a plazas e letti. Dei tradimenti è meglio non parlare neppure. Dei tori invece non si può fare a meno. A Lucia Bosè la corrida non piace e questo rischia di rivelarsi un crimine più insopportabile di qualunque altra debolezza o rancore. La fine viene scritta a lettere di fuoco. Il matrimonio è durato poco più di tredici anni. La vita però per Lucia semmai ricomincia: pochi mesi e riprende a lavorare. Come attrice, sembra maturata più che se avesse calcato palchi ogni giorno degli anni di lontananza. C’è una donna adesso, non più una bambina, per registi come i fratelli Taviani e Fellini. C’è una madre che riesce a dedicarsi costantemente ai figli – “la cosa più bella che il torero mi ha dato in una storia che è finita come finisce tutto. Come quando sul palco cala il sipario”.

Luis Miguel tornerà a sposarsi. Lucia no. Al torero non consentirà di rifarlo in chiesa, rifiutandosi sempre di ammettere la rottura presso la Sacra Rota. Il matrimonio è una volta sola – su questo la Bosè non ha altra parola. Quel che l’ha resa diversa da tutte le decine di donne di cui i tori erano stati gelosi è un marchio che deve restare indelebile. Più doloroso e più orgasmico di qualsiasi ferita da corrida. Perché l’amore può essere insieme più dolce e più amaro di ogni cosa, proprio come diceva Saffo. Alla fine, resta un disegno perfetto per raccontare quella storia. Esce dalle mani di Picasso. Sono linee sottili e ondulate in una magia tipica solo dei grandi artisti. Pochi tratti che si uniscono in un toro sollevato in volo da due piccole ali. “I tori sono angeli con le corna” disse Picasso consegnando il disegno a Lucia. Lei lo tenne sempre nei propri cassetti. Di sé avrebbe detto: “Adoro gli angeli ma sono attratta dei diavoli”. Del marito avrebbe sentenziato: “Il torero era un diavolo. Ma una piuma d’angelo gli era rimasta attaccata”.

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